«Aborto farmacologico: una conquista da difendere». Questa scritta a caratteri cubitali spicca su un cartellone pubblicitario esposto in diverse città italiane. Di seguito si legge anche: «Ho scelto di interrompere volontariamente una gravidanza con la terapia farmacologica. L’ho potuto fare in tutta sicurezza. La Ru486 evita il ricovero ospedaliero e l’operazione chirurgica: una scoperta scientifica meravigliosa per la salute della donna». Ma è davvero così sicuro assumere una semplice pillola per “risolvere” il problema di un figlio indesiderato?
Il dr. Giuseppe Noia, direttore dell’Unità operativa perinatale del Policlinico Gemelli, afferma che la pillola Ru486 «non è né sicura, né indolore, né semplice da usare». L’aborto farmacologico consiste nella somministrazione di una pillola, appunto la Ru486, che provoca la morte del nascituro e, con l’assunzione di altri farmaci, ne provoca l’espulsione: un processo che «può durare fino a due settimane – afferma il dr. Noia – mentre il British Medical Journal riferisce che nel 56% dei casi in cui l’embrione è in età gestazionale elevata, la donna subisce l’esperienza devastante di vedere l’embrione espulso con tutto il sacchetto gestazionale». Come può non avere effetti negativi un’esperienza del genere? Come può essere chiamata «una scoperta scientifica meravigliosa per la salute della donna»? Sono tantissime le donne che sempre di più riescono a rompere il silenzio creato dai sensi di colpa e dalla vergogna per parlare del loro dramma: aver abortito non le ha liberate da un impiccio, ma le ha scaraventate in un baratro di solitudine e di senso di perdita difficilmente esprimibile a parole.
L’aborto è un dramma che andrebbe sempre evitato e questo lo dicono prima di tutto le donne che ci sono passate.
Chiara Bonetto
Giornalista e insegnante diplomata Iner Italia
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