La famiglia coincide con quella rete primaria all’interno della quale il bambino trova la soddisfazione dei propri bisogni, stringe legami, sperimenta dinamiche relazionali, costruisce identità, cresce in competenza, sviluppa abilità, si proietta verso l’esplorazione di mondi diversi e di nuovi legami, trova risorse per perseguire l’indipendenza.
Appartenenza e autonomia, protezione ed esplorazione, connessione e identità, sostegno e separazione sono le polarità attraverso le quali si articola e si snoda lo sviluppo individuale; tali polarità trovano nella famiglia il contesto primario attraverso il quale si traducono poi in esperienza personale e storia comune. Allo stesso tempo la possibilità di coniugare tali diverse polarità risiede proprio nelle risorse dell’intero gruppo familiare, che, in quanto rete complessa di rapporti, può gestire i bisogni opposti ma irriducibili dello sviluppo.
Uno degli aspetti caratterizzanti della famiglia è il rapporto individuo-gruppo. La promozione dell’autonomia dei componenti è infatti uno dei compiti più importanti che la famiglia assolve. In essa, i singoli individui crescono, sviluppano un’identità e acquisiscono gli strumenti e le risorse per interagire con e nell’ambiente. La famiglia, tuttavia, è una rete di relazioni caratterizzata dall’interdipendenza; si configura cioè come un contesto che favorisce anche la connessione, l’appartenenza e la reciprocità, ovvero la capacità di essere in contatto emotivo con gli altri. Questi aspetti sono strettamente connessi tra loro: la promozione dell’autonomia individuale non può essere perseguita a scapito della connessione tra tutti i componenti e, d’altra parte, la cura delle relazioni reciproche e dell’appartenenza al gruppo non può ostacolare il raggiungimento dell’indipendenza dei singoli membri (Fruggeri, 2009). La famiglia deve essere in grado quindi di “accompagnare” il ragazzo (Crepet, 2009); per fare ciò deve saper trovare una giusta distanza (autonomia personale vs coesione) in modo da poter riconoscere il figlio come una persona unica e a sé stante rispetto al gruppo famiglia, ma appartenente pur sempre a questo.
L’immagine più esemplificativa forse è quella del puzzle: ogni membro della famiglia è come un singolo tassello, con i propri colori, il proprio disegno, le proprie specificità, necessario e fondamentale per ottenere l’immagine finale (quindi la famiglia); ma allo stesso tempo è a sé stante. Guardando infatti il puzzle completato è evidente che è composto dall’unione dei singoli tasselli, che sono però sempre differenti tra loro e con una propria esistenza a prescindere dall’intero puzzle.
L’autonomia individuale, inoltre, viene misurata sulla base della capacità dei singoli di esplorare e dunque di allontanarsi dal contesto di appartenenza e tale capacità emerge dai legami di attaccamento con l’intera rete familiare. Il maggiore contributo su questa tematica proviene proprio dalla Teoria dell’Attaccamento di John Bowlby.
L’attaccamento viene visto da questo autore come un sistema pre-programmato a livello biologico che si sviluppa progressivamente nei primi mesi di vita al fine di apprendere le strategie di gestione dell’angoscia e del dolore tramite la stretta prossimità con la madre. Ruolo fondamentale dei genitori, per Bowlby, è quindi quello di fornire appunto una “Base Sicura” ai propri figli, permettendo una progressiva autonomizzazione, ma considerando al contempo che essi necessitano costantemente del sostegno parentale.
Questa teoria ritiene che il comportamento di attaccamento si manifesti in una persona quando essa consegue o mantiene una prossimità con un’altra persona considerata in grado di affrontare il mondo in modo adeguato. La funzione biologico-psicologica sarebbe quindi quella di fornire protezione e tale comportamento, più evidente sicuramente nell’infanzia, si manifesterebbe in tutto l’arco della vita del soggetto. La teoria dell’attaccamento ha così permesso di identificare la presenza di una struttura psicologica interna che comprende schemi di rappresentazione del sé e della figura di attaccamento e che può spiegare sia il comportamento di attaccamento generale che l’attaccamento duraturo con figure specifiche.
Questa teoria sottolinea il ruolo di alcuni elementi fondamentali:
il primato dei legami emotivi intimi: i legami emotivi con le figure di attaccamento vengono visti come componente biologica presente fin dalla nascita e scollegata dalle funzioni svolte dal cibo e dalla sessualità. Già dalla seconda metà del primo anno di vita il bambino sviluppa quindi capacità di rappresentazione e di attaccamento che diverranno stabili, anche se progressivamente più sofisticate, nel corso della vita;
schemi di Attaccamento e Condizioni dello Sviluppo: dal tipo di relazione che si sviluppa con la madre. Vari studi (tra cui primariamente quelli di Mary Ainsworth) hanno potuto distinguere quattro Schemi di Attaccamento: Sicuro (fiducia nella disponibilità e nella comprensione da parte del genitore); con Resistenza Angosciosa (evidente paura dell’abbandono e angoscia nei casi di separazione, che si sviluppa quando i genitori sono a tratti disponibili ma che minacciano spesso l’abbandono); con Evitamento Angoscioso (autosufficienza emotiva e relazionale del bambino che evita il contatto; questo schema è il frutto di rifiuti ripetuti da parte del genitore); Disorientato e/o Disorganizzato (forme disorganizzate o disorientate degli schemi precedenti, frutto di genitori abusanti o fortemente trascuranti);
persistenza degli Schemi Comportamentali: sebbene nei primi tre anni di vita gli schemi di attaccamento rimangano ancora modificabili, successivamente il bambino tenderà ad interiorizzare tali comportamenti e pensieri includendoli nel proprio sé e riproducendoli ininterrottamente nella propria vita.
Un altro compito importante, legato sempre alla funzione di saper creare autonomia e coesione, è quello di “insegnare il limite”. Infatti, la responsabilità che i genitori hanno di aiutare i propri figli nel processo di individuazione comporta, oltre alla cura, la protezione e il sostegno necessari per lo sviluppo, anche l’introduzione di vincoli, l’imposizione di confini e di regole (PietropolliCharmet, 2000).
Nella società post bellica, la famiglia era di tipo patriarcale e veniva privilegiata un’educazione autoritaria, basata su regole e norme; si veniva quindi educati fin da piccoli con la tendenza ad abbandonare i propri sogni e i propri desideri molto presto. Era la famiglia a decidere cosa avrebbero fatto i figli nel futuro. In questo modo quando il ragazzo iniziava l’età giovanile e si scontrava/confrontava con la realtà, era più facile per lui maturare e diventare adulto in quanto le illusioni infantili erano già stata abbandonate.
Al giorno d’oggi invece si parla di “famiglia degli affetti”, che ha come scopo fondamentale quello di fornire amore e sicurezza ai figli, e di soddisfarne ogni bisogno affettivo, economico e sociale (Pietropolli Charmet, Riva, 1995). Si è passati quindi ad un’educazione che mette al centro il figlio, con i suoi sogni e i suoi desideri; un’educazione che vede la norma e le regole come nemici nella crescita dei figli, che cerca di preservarli da ogni dolore e frustrazione. Educazione che non riesce più a trasmettere ai ragazzi l’importanza di porsi degli obiettivi e di faticare per raggiungerli. Assistiamo quindi a genitori che si lamentano e chiedono un colloquio all’insegnante perché non ritengono corretto il brutto voto dato al figlio, o che protestano perché reputano una punizione eccessiva la decisione di sospendere un ragazzo per aver filmato in classe il professore. Spesso e volentieri molte azioni vengono giustificate come “ragazzate”, permettendo ai ragazzi di sottrarsi dall’assumersi le proprie responsabilità. Giustificazione che rischia di essere generalizzata a diversi ambiti e a diverse azioni e che permette ai ragazzi di far perdere il valore delle azioni compiute, evitando così di assumersi le proprie responsabilità. Tutto questo sta portando a crescere delle generazioni fragili e vulnerabili, poco disposte al confronto e in forte difficoltà a “stare” nella realtà; generazioni che al primo ostacolo cadono e faticano ad alzarsi in quanto privi di competenze e strumenti per sopportare e gestire le piccole e grandi frustrazioni che inevitabilmente la vita riserva.
Lo psichiatra Crepet (2009), afferma in tal senso che i bambini/ragazzi/figli devono poter crearsi degli “anticorpi psicologici” e per farlo è necessario che il bambino faccia tutti i tentativi e gli sbagli per potersi fortificare. Per questo grazie alle piccole frustrazioni quotidiane, che generano in un certo modo della sofferenza, ma che vanno assolutamente vissute, il bambino cresce e matura ed impara il tempo dell’attesa e della perseveranza. E’ perfettamente capibile che qualunque genitore vorrebbe evitare di vedere il figlio soffrire (“voglio solo che tu sia felice”) ma la vera cura e protezione che i genitori possono offrire ai figli è proprio permettere loro di sperimentare queste frustrazioni all’interno della famiglia; infatti, di fronte a questa sofferenza la figura del genitore è fondamentale in quanto giustifica e capisce la difficoltà del figlio, gli sta vicino mentre la prova, ma nello stesso tempo con la sua presenza gli comunica il concetto “so che è difficile il momento che stai vivendo, ma so anche che tu ce la puoi fare!”. Tuttavia, quando e se il dolore si tramuta in disperazione (mancanza o perdita di speranza) allora il genitore deve intervenire. È proprio la disperazione che deve essere prevenuta. Il genitore deve riuscire a capire quando aspettare che il dolore fortifichi o quando invece intervenire per prevenire la disperazione e l’emergere della disistima (“io non valgo niente e non ce la potrò mai fare!”).
I figli vanno amati e non adorati! E l’amore e l’affetto si misurano più con i “no” (motivati e condivisi) che con i “sì”. Arginare un fiume, porgli dei limiti, non vuol forse dire permettergli di scorrere più velocemente senza disperdersi?! L’effetto non è forse quello di aiutarlo a presentarsi ed esprimersi al meglio delle proprie capacità? I ragazzi hanno bisogno di regole e di genitori che le facciano rispettare; crescendo un giorno saranno riconoscenti.
Un altro importante compito che spetta alla famiglia è quello di saper coniugare la stabilità e il cambiamento (Fruggeri, 2005). La stabilità garantisce la continuità del gruppo familiare col proprio passato, sviluppa il senso di appartenenza e configura la famiglia come la base sicura alla quale i suoi componenti possono rivolgersi in qualsiasi momento per trovare cura e protezione. Il cambiamento invece è il necessario esito di processi adattivi sollecitati dalle mutate condizioni dei membri che compongono il gruppo familiare o dall’ambiente in cui esso è inserito.
In questo processo è fondamentale il concetto di “base sicura”. La famiglia cioè deve essere una base, un punto d’appoggio, quasi un trampolino di lancio che possa permettere al figlio di esplorare l’esterno, il mondo reale, di mettere finalmente in campo le abilità e le competenze che ha sperimentato e acquisito nella microsocietà familiare, e che gli consentiranno infine di inserirsi ed integrarsi nella società. E questa base deve essere sicura: il ragazzo cioè deve sapere che può fidarsi del fatto ed essere certo che qualunque cosa accada, nella famiglia, potrà sempre trovare un punto di appoggio, conforto e sostegno.
In maniera sommaria, possiamo quindi dire che alla famiglia spettano i seguenti compiti:
promuovere la coniugazione tra autonomia e coesione;
garantire una base sicura attraverso cura e protezione;
insegnare il limite;
saper coniugare la coniugazione di stabilità e cambiamento.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Bowlby, J. (1973). Attaccamento e perdita. Vol. II, La separazione dalla madre. Trad. It. (1975). Torino: Boringhieri.
Bowlby, J. (1980). Attaccamento e perdita. Vol. III, La perdita della madre. Trad. It. (1983). Torino: Boringhieri.
Bowlby, J. (1988). Una base sicura. Trad. It. (1989). Milano: Raffaello Cortina.
Bowlby, J. (1969). Attaccamento e perdita. Vol. I, L’attaccamento alla madre. Trad. It. (1972). Torino: Boringhieri.
Crepet, P. (2009). Sfamiglia. Vademecum per un genitore che non si vuole rassegnare. Torino: Einaudi.
Fruggeri, L. (2005). Sviluppo individuale e contesti familiari. In P. Bastianoni, L. Fruggeri. Processi di sviluppo e relazioni familiari. Milano: Unicopoli.
Fruggeri, L. (a cura di) (2009). Osservare le famiglie. Metodi e tecniche. Roma: Carocci.
Ghiglione, F. (2015). I papà spiegati alle mamme. Torino: Einaudi.
Migliarese Ceriotti, M. (2011). La famiglia imperfetta. Come trasformare ansie & problemi in sfide appassionanti. Milano: Edizioni Ares.
Pietropolli Charmet, G. (2000). I nuovi adolescenti. Padri e madri di fronte a una sfida. Milano: Raffaello Cortina.
Pietropolli Charmet, G., Riva, E. (1995). Adolescenti in crisi genitori in difficoltà. Come capire e aiutare tuo figlio negli anni difficili. Milano: Franco Angeli.
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